PROGETTO MEMORIA
Invitiamo chiunque a contribuire inviandoci la propria storia, la propria testimonianza e potremo qui fare un'ampia raccolta di questi documenti che possono essere colmi di scritti, immagini, foto e altro. Puntiamo anche realizzare un Cd conseguente che distribuiremo e una pubblicazione.
mandate la vostra storia alla e-mail
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O SCRIVETE A STEFANO BRAMANTI VIALE ELBA 113 57037 PORTOFERRAIO
Foto: Raul DanielloRaul Daniello è un altro portoferraiese protagonista delle storie di quei tempi, ci ha narrato un evento unico, per fortuna risoltosi senza drammi.
Morte e distruzioni, a Portoferraio, durante l’ultimo conflitto mondiale a causa di numerosi bombardamenti. Ma spunta anche un testimone del tempo, Raul Daniello, che visse in prima persona un altro episodio drammatico: 80 elbani furono deportati in Corsica dagli Alleati.
Raul Daniello, pensionato classe 1926, è uno degli protagonisti della vicenda che conferma le sofferenze degli elbani nel periodo 1943-44. L’ex barista del mitico bar Roma ci offre una cronaca storica pressoché inedita.
Daniello ci aiuta quindi a ricordare questo nuovo episodio di guerra locale. Il racconto dimostra ancora una volta l’assurdità dei conflitti. Un difetto, la guerra, che pare faccia parte del Dna dell’uomo, incapace di vivere all’insegna della pace e della giustizia sociale.
Il pensionato, con i suoi ricordi, ha aiutato anche la locale scuola media e il Circolo Pertini che stanno cercando di allestire un “Progetto Memoria”, con tanto di piccolo museo dei ricordi della gente, fatto di documenti e foto.
Il nostro sopravvissuto lo abbiamo intervistato ed ecco il suo ricordo.
“L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio. Sembrava tutto finito, ma non era così, all’Elba doveva ancora venire la catastrofe L’ombra dell’invasione tedesca era sempre più vicina. Il 16 settembre 1943, com’è noto, ci fu il gran bombardamento e subimmo la prima, chiamiamola così, carneficina, ma ce ne furono altre.
A quel tempo avevo 16 anni e una volta che i germanici presero possesso dell’isola e di Portoferraio, molti civili furono costretti a lavorare per loro. L’alternativa era la deportazione nei campi di concentramento nazisti. Per 9 mesi lavorammo in una batteria contraerea, collocata nel piano di Schiopparello. Facevamo opere d’edilizia rudimentale per la loro batteria contraerea, scavavamo trincee e quando occorreva servivamo i militari, porgendo loro le munizioni per i cannoni. Ricordo che lavorarono con me Guglielmo Taccioli, un grande amico, Gino Lambardi e Umberto Selmi, che persi durante il bombardamento del 19 marzo del 1944, fatto dagli Alleati che erano impegnati nell’azione di liberazione dell’Italia dal dominio germanico. Rimase sotto le macerie del palazzo dell’ Ape. Con me si era comportato come un padre. Inizialmente, una volta fatto il nostro dovere per gli occupanti, potevamo darsela a gambe e tornare alla nostre case, ma in seguito, con i numerosi bombardamenti degli Alleati, i tedeschi ci costrinsero a restare nella batteria, recintando tutta l’area intorno. Si rischiava la vita durante le azioni militari, costretti a vivere in mezzo al conflitto dai nazisti. Con i miei 16 anni non me la passavo bene e la mia povera mamma era sconvolta.
E la fine di quest’incubo giunse il 17 giugno del 1944, quando ci fu un altro sbarco; questa volta quello degli Alleati, ma devo dire fu perfino peggiore del primo, per gli effetti che produsse.
Donne violentate, ancora bombe, morti, furti e prigionieri. Alcune truppe Alleate di colore non scherzavano davvero. Ci si dovette consolare perché ci portavano, attraverso le brutture della guerra, la libertà. Però circa 80 civili, tra cui il sottoscritto, furono fatti prigionieri e deportati in Corsica.
Lo sbarco degli Alleati avvenne a Marina di Campo e ci fu un’accanita opposizione dei tedeschi e i liberatori subirono molte perdite, ma presto ebbero la meglio.
Poi anche a Procchio si replicò il tentativo germanico e le forze che sarebbero diventate amiche, arrivarono ad occupare Portoferraio ed ecco che accadde la vicenda che mi vide coinvolto, insieme a mio padre.
Il tutto avvenne con la fuga verso la città, dalla zona del Capannone, da parte dei tedeschi. Molti civili uscirono dalle case per raggiungere le postazioni militari abbandonate, nel tentativo di recuperare qualche cosa, materiali, cibo, indumenti. I nuovi invasori non fecero complimenti. Pensarono, vedendoci nei pressi delle postazioni, che fossimo civili bellicosi impegnati in una sorta resistenza alla loro azione militare. Un equivoco tipico dei momenti drammatici della guerra e quindi ci catturarono. Ci portarono presso lo stadio del Carburo, ma poi ci fecero arretrare perché un cannone tedesco, posto sulle fortezze medicee, prese a bombardare verso quella posizione. Ci caricarono allora su dei camion e ci portarono a Marina di Campo. Lì trovammo ancora l’inferno. Aerei tedeschi bombardarono e in mezzo al putiferio fummo imbarcati su delle scialuppe, per essere deportati in Corsica. Sul mezzo navale mi ritrovai anche con un gruppo di militari tedeschi che avevamo fatto parte della batteria di Schiopparello, ormai prigionieri. Credo di essere l’ultimo superstite di quello sfortunato gruppo. Oltre a me c’erano altri due ragazzi il Canapini e un certo Pierulivo, di 14 e 15 anni e per il resto erano sopratutto anziani. Ricordo che c’era il Gelli, un commerciante, Marinari, direttore di banca, Procchieschi, il padre di Boris, quest’ultimo ora dirigente d’albergo; quindi Ilio Sarti, il Costagli. E c’era anche mio padre Manfredo. Fummo catturati insieme e non potete immaginare cosa passava per la mia mente di ragazzo, ero terrorizzato e che si vede strappato dal proprio ambiente, dalla famiglia, per affrontare l’ignoto, in mezzo alle violenze della guerra. Speravo tanto di risvegliarmi da un brutto incubo, ma purtroppo era tutto vero.
Noi prigionieri civili quindi affrontammo quell’umiliazione, che per fortuna durò solo circa 20 giorni, e non fu certo una passeggiata turistica.
Fummo trasportati dal mezzo da sbarco e chissà come arrivammo a Bastia, in Corsica. Subimmo una sorta d’interrogatorio di terzo grado, con non poche violenze. Il sottoscritto fu scambiato per un tedesco durante l’interrogatorio. Ero già molto alto e il fatto d’essere biondo fece pensare ai militari Alleati, dei senegalesi, che io fossi un “ariano”. Non sapevo bene cosa rispondere alle domande, la comunicazione in lingue diverse era impossibile e mi colpirono ripetutamente e così capitò a molti altri miei compagni di sventura.
Eravamo sistemati in un carcere posto in un’antica fortezza e per la prima settimana di segregazione ci dettero da mangiare una sola galletta al giorno. Non sto a dire delle condizioni igieniche nelle quali vivevamo, non esisteva un bagno, immaginatevi. In seguito le cose migliorarono un po’, perché ci portarono a mangiare presso un convento e le suore riuscirono a darci del cibo decente. Finalmente dopo giorni di sofferenza, fummo salvati per interessamento di un frate, certo padre Pietro Rossetti, che probabilmente riuscì a far capire ai nostri aguzzini che noi non eravamo di certo una preda militare. Mi ha aiutato in questo ricordo del nostro salvatore, Douglas Veltroni, che mi ha fatto notare come il religioso fu poi anche assessore all’assistenza, quando fu sindaco l’avvocato Mario Colivicchi, nell’immediato dopoguerra. Ci rimpatriarono quindi e se il frate non fosse riuscito nella sua azione umanitaria, il nostro viaggio si sarebbe di molto allungato: eravamo destinati ad un campo di concentramento in Algeria.
Queste e altre sofferenze ha subito la popolazione elbana, è davvero poca cosa la medaglia di bronzo che lo Stato italiano ci ha assegnato. Aveva ragione il compianto preside Aulo Gasparri, l'Elba si merita la medaglia d’oro!”.